IL SENSO DELLA RELIGIONE A BONEFRO

di Nicola Picchione



Ci fu un tempo che Bonefro aveva sette preti. Il numero, ovviamente, non fa qualità e molti preti non donano più fede o portano più anime in paradiso.
La religione ha sempre svolto un ruolo fondamentale in ogni popolo, indipendentemente dal giudizio che se ne voglia dare. Anche chi afferma di essere ateo porta dentro di sé radici culturali che traggono origine in parte dalla religione. Consuetudini, cultura, religione si condizionano a vicenda. Negli ultimi tempi alcune tradizioni sono andate attenuandosi ma allora non c’era a Bonefro chi per quanto professasse l’ateismo o completo disinteresse per la religione o diffidenza verso i preti non battezzasse i figli o non si sposasse in chiesa ( magari la mattina presto, quando era ancora buio per non mettersi in mostra) o non facesse funerali religiosi. L’ approccio a problemi fondamentali come quelli inerenti la sessualità, la famiglia, l‘educazione dei figli erano profondamente condizionati dalla religione.
L’ organizzazione religiosa- da noi la Chiesa cattolica- ha dovuto ritirarsi in confini più ristretti in nome della laicità dello Stato, anche se stenta a farlo e spesso sconfina, ma per secoli ha dettato norme, ha formato coscienze, ha influenzato tutti gli strati sociali anche se essa stessa ha preso da religioni e culture precedenti non poche credenze e ritualità.
Perciò anche una comunità piccola come Bonefro non poteva non adeguare i propri comportamenti – soprattutto quelli esteriori – alle regole religiose divenute parti culturali importanti non solo per quanto potesse riguardare ricorrenze e feste ma anche per comportamenti importanti.
Parlare degli aspetti religiosi dei bonefrani di una volta non è facile. Queste mie note si basano soprattutto su ricordi e impressioni personali prescindendo da analisi sociologiche che non mi competono e non rientrano nelle loro finalità. Perciò, quanto scrivo ha valore relativo: non per i ricordi che cito ma per le considerazioni che faccio.


La prima sensazione è che pochi bonefrani erano veramente religiosi. Se tutti rispettavano quelle tappe rituali che la religione ritiene fondamentali nella vita di un cristiano (battesimo, matrimonio ecc..) pochi frequentavano assiduamente la chiesa. Anche se non mancava chi credeva profondamente e seguiva fedelmente le pratiche religiose ( i v-zoch’ ), molti uomini consideravano la religione faccenda da donne. Tra le stesse donne, solo poche frequentavano assiduamente la chiesa. La maggior parte era troppo presa dagli impegni giornalieri: Gesùcrist’ u’ sa che n-n facc’ mal’ e m’ perdon’ se n-n vai ‘na chiesia. Del resto si racconta che un prete bonefrano interrupe la celebrazione della messa per rivolgersi a una donna che aveva portato con sé il piccolo figlio che continuava a piangere disturbando la funzione. Le disse che era meglio se andava a casa e pensava alle faccende da fare e badava al bambino. Dio avrebbe capito e perdonato.
La partecipazione a cerimonie come il battesimo, il matrimonio, il funerale era dettata dai legami di amicizia e parentela più che da quelli strettamente religiosi e le stessa pratica di queste prescrizioni era condizionata dalla tradizione più che da vera religiosità. Anche altre pratiche avevano poco a che fare con il senso profondo della religione: era frequente vedere bambini molto piccoli vestiti con piccoli sai cinti da un cordone ( u munechell’) in onore di S. Antonio che era allora molto popolare e ritenuto il maggior dispensatore di grazie ( oggi mi dicono che Padre Pio lo abbia scavalcato in popolarità).
La chiesa, tuttavia, era abbastanza affollata la domenica. Gli uomini nella navata sinistra in gran parte in piedi con la coppola in mano, le donne sedute in quella centrale; nella navata a destra si potevano notare le famiglie di qualche professionista: quella di don Corrado, di don Francesco. Pochi uomini partecipavano attivamente alla cerimonia: non recitavano preghiere, non cantavano. I giovani davano uno sguardo verso le donne per individuare qualche ragazza. Il campanile era per qualche giovane un campo di prova di coraggio: per suonare a distesa la campana grande o per sporgersi e passeggiare lungo il cornicione.
Credere e non credere era un problema che pochi si ponevano. Ho un ricordo: ero molto piccolo e avevo accompagnato mia nonna all’ aia ( a Macchia da strett’) per spannocchiare il granturco (sfruscià i morr’). Un uomo anziano, in piedi, spiegava alle donne con un accento da esperto che Inferno e Paradiso non esistevano, erano solo un’invenzione di Dante Alighieri. Non pochi ritenevano che fare il prete era solo un mestiere come un altro. A volte tra l’ uomo di chiesa e il non credente correva un rapporto di sospetto. Mi raccontava un anziano contadino (Luigi D’ Onofrio) che un giorno si presentò sull’ aia un monaco del convento di Casacalenda. Aveva la bisaccia ancora vuota e chiese un po’ di grano per le anime del Purgatorio. Il contadino chiese delucidazioni e il frate gli spiegò che se aveva i genitori morti ed erano in Purgatorio, l’ offerta avrebbe accorciato la pena. “Se ti dò tanto grano da riempire la bisaccia, di quanto si accorcia la pena?”. Al frate deve essere parso vantaggioso non andare ancora in giro per la cerca; gli rispose: “ Vanno direttamente in Paradiso”. “Allora, riempi la bisaccia”. Il frate stava andando via con la bisaccia piena quando il contadino gli chiese:”Ma è certo che ora sono usciti dal Purgatorio?” “Se erano là, puoi starne certo”, gli confermò il frate. “Allora io li ho fatti uscire, ora rimetti a terra tutto il grano e va via”. Ovviamente, il rapporto era spesso di grande rispetto e il prete era in paese una delle autorità di maggior considerazione.
I bonefrani santificavano poco le feste: quando c’era da lavorare, soprattutto in campagna, aveva poca importanza che fosse domenica. Del resto, credo che questo precetto sia nella religione cattolica molto meno rigido che in quella ebraica, pur essendo un comandamento divino anche per la nostra religione. Si potrebbe attribuire questo diverso atteggiamento alla diversa concezione della divinità: Jahvé era molto più intransigente del Dio cristiano. Credo che la ragione sia ancora più profonda. Secondo Fromm, il riposo del sabato era importante per gli ebrei perché rappresentava non solo una norma di buonsenso peraltro ereditata dai babilonesi- riposarsi dopo il lavoro della settimana - ma era la riconciliazione dell’uomo con la natura: il lavoro interferisce con la natura, la modifica, in un certo senso la violenta (oggi molto più di ieri). Il riposo indica una pacificazione tra uomo e natura: perduta la pace del Paradiso terrestre, l’uomo deve rappacificarsi con essa; nel giorno del riposo egli non la tocca, non la modifica. La lascia in pace. Il bonefrano aveva un rapporto conflittuale con la natura: pur rispettandola, tendeva a vederla come una bestia da domare, non solo da ammaestrare coltivandola con una fatica enorme che gli causava sacrifici ma anche guardandola come una madre capricciosa che non sempre gli dava il raccolto sperato.
Potrebbe sembrare contraddittorio con tutto questo la partecipazione dei bonefrani alle feste in onore di alcuni santi: S. Nicola, S. Antonio, S. Celestino, S. Michele. In realtà anche queste ricorrenze finivano per avere un significato religioso piuttosto superficiale. La ricorrenza serviva per festeggiare, mettere l’abito nuovo, vedere gli amici, la sera ascoltare la banda in piazza. Una meritata pausa al lavoro. Non posso dire quanti seguissero la statua del santo in processione per vera fede o per una consuetudine. Ricordo che le processioni erano affollate ma la maggior parte della popolazione assisteva lungo le strade al suo passaggio, qualcuno metteva alle finestre una coperta ricamata in segno di omaggio al santo, qualcuno attaccava alla statua una moneta di carta forse per chiedere una grazia. La processione aveva senz’ altro un fascino particolare col suo apparato, con la banda che suonava dietro la statua del santo. Si aspettava che finisse per andare a pranzare, quando lo “sparo” annunciava che il santo stava per tornare in chiesa. Non saprei dire, però, quanto di tutto questo fosse dettato da un profondo senso religioso, quanto conservasse antiche usanze anche precristiane. I piccoli contributi in danaro o in merce (di solito era grano) che la gente dava alla commissione che organizzava la festa e che girava per le strade per la raccolta, erano dovuti poco alla fede. E’ inutile porsi certe domande. La fede è innanzitutto una faccenda personale, un rapporto diretto con Dio. La religione dovrebbe servire a organizzare la fede di ognuno rendendola corale.


Mi colpiva da ragazzo la diffusione della bestemmia tra gli uomini. Ognuno aveva la sua bestemmia preferita ma in genere esse erano rivolte direttamente all’apice della divinità: Dio, Cristo, la Madonna. I santi erano poco colpiti. Bestemmiare era tanto diffuso da non essere soltanto lo sfogo nei momenti di maggior tensione ma quasi un intercalare.
Ho cercato di capire le cause di questa diffusione della bestemmia. Attribuirla soltanto a cattiva educazione o a una sorta di tradizione nella quale il ragazzo imparava a sentirsi più grande bestemmiando ( e fumando) o a manifestazione di virilità mi sembra inadeguato.
La bestemmia è vista a ragione come un’ offesa grave alla divinità e al credente. Va evitata anche da parte di chi non crede. Sono arrivato alla conclusione, tuttavia, che a quell’ epoca, in quelle circostanze ambientali essa non fosse una volontaria offesa a Dio. Esprimeva, piuttosto, il conflitto tra l’uomo e la divinità.
Tento di spiegarne le ragioni, anche se immagino non condivisibili. Credo che affondino da una parte nel carattere del bonefrano (di allora) e dall’altra nella vita dura e piena di incertezze.


Il bonefrano di allora non amava manifestare apertamente i suoi sentimenti di amore. Preferiva assumere un atteggiamento duro e quasi minaccioso soprattutto verso moglie e figli ( t’haie fa nù passeman…). Preferiva mostrarsi forte e capo. Non solo tendeva a tenere sommersi i sentimenti di affetto ma spesso li mascherava con espressioni di durezza : comandi secchi, spesso minacce verbali tese a manifestare il proprio ruolo. Questo modo di esprimersi era comune anche alle donne nei confronti di chi era considerato inferiore a loro nella scala sociale: i figli e in genere i ragazzi. Spesso ci si lasciava andare verso i figli ad espressioni apparentemente violente : “ puzz’ s-chettà” oppure “puzz’ cr-pà” o “ t- pozz-neccide” oppure “ t’ m-niss’ u’ mal’ d’ sant’ D-nat’ “. Anche tra amici non era raro sentire : “ch- ssi- ccis’ o “ch-ssi-mbes’ ‘’. Nessuno se la prendeva per queste frasi: si sapeva che era soltanto un modo ruvido di esprimersi. Credo che lo stesso modo venisse usato per la divinità. Come ho già notato, di solito la bestemmia era diretta alla divinità: i santi erano meno presi di mira. Le bestemmie più frequenti riguardavano il corpo o il sangue di Dio o di Cristo o della Madonna, rafforzati spesso da epiteti offensivi. Non a caso alla bestemmia era spesso associata una riflessione amara: “ me ch- l’hai fatt- u Padretern? “. Mettendo insieme la considerazione precedente su alcune espressioni apparentemente crude verso i figli ( ma certamente ben lontane da un vero augurio) e il rivolgersi direttamente alla divinità sia pure con la bestemmia, sono persuaso che essa fosse soltanto un rapportarsi a Dio (o al Figlio o alla Madre: ma tutto in famiglia. Il nostro monoteismo, credo, è in parte solo apparente) come un tentativo di colloquio impossibile: quasi un voler richiamare l’attenzione della divinità verso i propri problemi fondamentali. Credo che le bestemmie esprimessero allora un senso di solitudine di fronte alle difficoltà, la sensazione di essere abbandonati da un Dio lontano, indifferente. Tanto più lontano quanto più presentato come un Padre amorevole. Una contraddizione per la logica inflessibile del bonefrano.
Il concetto della divinità ha subìto notevoli trasformazioni nel tempo, parallele alla evoluzione culturale. Da padrone e tiranno esigente da placare con sacrifici umani anche dei figli ( mi limito a citare Agamennone che sacrificò la figlia Ifigenia per ottenere dagli dei i vènti che permettessero alle navi di salpare verso Troia. Il mancato sacrificio di Isacco da parte del padre Abramo forse è il simbolo del passaggio dai sacrifici umani a quelli animali. Del resto la nostra stessa religione ammette il sacrificio del Figlio per cancellare l’ offesa fatta al Padre dagli uomini, anzi da un solo uomo) Dio è progressivamente diventato padre amoroso (Giovanni: Dio è amore).
L’ uomo, però, ha sempre sentito il peso del distacco tra lui- con i suoi problemi, la sua lotta per sopravvivere, le sue disgrazie- e il suo Dio, assente se non ostile. Prometeo fu condannato dagli dei per aver dato il fuoco agli uomini; Giacobbe dovette sostenere una strana lotta notturna col suo Dio uscendone sciancato. Questo senso di ostilità o di abbandono da parte della divinità anche quando la vita diventa un peso è una voce ricorrente nella storia dell’ uomo. Un richiamo continuo anche nella Bibbia. Ricordo la frase di un ragazzo di Bonefro, Delfino, che mentre arava ripeteva: “ mamm’, p-cché tu nun me ‘ffucat’ quann’ so’ nnat’? che somiglia in maniera impressionante al grido di dolore di grandi figure della Bibbia. Dice Giobbe: “Perché mi hai estratto dal grembo materno?” e Geremia : “ Maledetto il giorno in cui nacqui e il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia benedetto. Maledetto l’uomo che portò la notizia a mio padre, dicendo: “Ti è nato un figlio maschio”, colmandolo di gioia” (Ger. Cap.20). Anche il senso di solitudine e di abbandono da parte di Dio e il suo nascondersi all’ uomo ricorre spesso nella Bibbia e del resto anche nel Vangelo Gesù sulla croce si lamenta col Padre: “Perché mi hai abbandonato?”. Giobbe- che cito perché ritenuto simbolo di sopportazione- urla più volte il suo senso di abbandono da parte di Dio. “Vado a Oriente ma Lui non c’è. Vado a Occidente, non lo vedo. Forse agisce a Settentrione. Eppure non lo scorgo. Forse si nasconde al Sud. No, per me è invisibile”. “Nella città si leva il gemito degli abitanti, la gola dei feriti implora aiuto ma Dio resta sordo a queste infamie” Non solo è visto come indifferente ma anche pronto a condannare: “ Quando la finirai di spiarmi? Cosa ti ho fatto o carceriere dell’ uomo?”, si lamenta ancora Giobbe.
Le parole di Giobbe non sono meno forti delle bestemmie dei bonefrani, cioè di gente che si esprimeva nel modo che ho cercato di dire anche per sentimenti verso i figli o gli amici. E se figli e amici non si offendevano, sapendo che erano espressioni verbali senza malanimo, non credo che Dio (ammesso che esista) possa essersi offeso per quelle bestemmie che non voglio giustificare ma solo tentare di capire. In pratica, credo che le bestemmie frequenti dei bonefrani fossero assimilabili- pur nella grande differenza di espressioni- ai lamenti degli stessi personaggi biblici: un richiamo doloroso per sentirsi soli, abbandonati.

Oggi si bestemmia molto meno: segno di civiltà cresciuta ma – suppongo- anche di ridotto senso di religiosità. Il paragone non sembri irriguardoso ma parlare meno di Dio e nemmeno ricordarlo con la bestemmia è come per un politico non essere più rappresentato nelle vignette satiriche. Ho la sensazione che la fede sia soggetta ad una sorta di movimento altalenante: si espande e si contrae a seconda dei tempi e delle esigenze. Dio non è morto, come credeva Nietzsche; non è stato nemmeno sconfitto, come sosteneva Cinzio. Forse si è eclissato, come dice Buber. Si adatta ai tempi accettando le mode umane, pronto a tornare appena l’ uomo ne sente il bisogno. Come se vivesse soltanto nel cuore e nella mente degli uomini occupandone ora un posto d’onore ora solo un piccolo angolo nascosto. Quasi non fosse l’uomo al suo servizio ma egli al servizio dell’uomo.


Nicola Picchione

Commenti

  1. Complimenti per il post.
    L'argomento è molto impegnativo e l'immagine che prende corpo nelle parole e nella memoria dell'autore, sembra una foto istantanea del rapporto con la religione dei Bonefrani che prescinde dal tempo.
    L. D'Onofrio

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Nel 2017 il mondo ha perso un’area di foreste grande quanto l’Italia. L’indagine di Global forest watch

Un pericoloso salto all'indietro dell'agricoltura

La tavola di San Giuseppe