Carolina dice. Da qui si vede il mondo!


La lettura di Silvana Licursi del mio libro di poesie “Carolina dice. Da qui si vede il mondo”
Silvana è, sì mia cara amica che mi ha voluto rendere felice con questo suo dono, ma, soprattutto, una donna stupenda che profuma di sensibilità e di cultura. E’ l’artista bravissima che, con la sua voce, sa raccontare, nei teatri e nelle piazze, le sue origini lontane degli albanesi giunti nel Molise, ospiti delle dolci colline che, a destra e a sinistra del fiume Biferno, guardano l’Adriatico, il mare che tiene tutt’ora in piedi l’antico legame.   

Le Muse di Pasquale Di Lena non vestono lunghi pepli, non sono coronate di fiori, non suonano arpe o cetre; siedono sotto le grandi querce e gli ulivi secolari (è quello il loro “bosco sacro”), le spalle coperte di scialli colorati e i grembiuli pieni di frutta matura.

Profumano di cotogna, di melagranata, di finocchietto selvatico e parlano con la voce sommessa del ruscello che scorre verso la valle. Sono donne antiche e sagge che il senso della vita lo imparano e lo insegnano avvicinandola, assecondandola nel suo andare e vagare faticoso e lieto, trepidante e severo, inondato di luce o smarrito nel buio.

Nelle poesie di Pasquale non si “vede” il mondo; si respira, si contempla, si gode, si interroga, si esplora, si stringe forte tra le mani, si abbraccia la vita nella sua interezza: umana, animale, vegetale, terrena e divina.

Nei suoi versi limpidi, privi di ornamenti superflui, si costruisce un legame primigenio, necessario e passionale, quasi un’adesione carnale con la Terra Madre, osservata e raccontata con naturalezza e insieme con senso della meraviglia: la meraviglia è per lui mezzo di conoscenza.

Sotto gli occhi del lettore scorrono paesaggi con colori sempre diversi, le stagioni si avvicendano ciascuna con i suoi odori: il biancospino, l’acacia, il fico …  il tramonto trascolora nella sera, gli uccelli riempiono l’aria di voci e  voli, e tutte le specie hanno un nome.  La luna “cammina” nel cielo, la bellezza è nell’istante, ma la poesia sa rendere anche il senso di ciclicità, il mito dell’eterno ritorno. E’ il poema del Creato cantato senza retorica, il senso cosmico legato da fili sottili, ma forti, alla concretezza della vita d’ogni giorno, della fatica dell’uomo nei campi, e anche degli animali,  al dolore che si accompagna ad ogni esistenza.

Questo non è un mondo idilliaco, non è un’Arcadia, non è un folclore pittoresco: l’occhio esplora il reale mentre la mente elabora pensieri, riflessioni profonde, interpretazioni, significati.

La Natura è materna, feconda, mai elemento di contorno, sempre in stretta relazione con l’uomo, perciò in essa albergano necessariamente anche  la tragedia, la morte, l’irreparabile perdita, la sventura, il lutto.  E la paura.

“Come le mie stelle/ e i ghiacciai delle mie paure “ (Inizio di Primavera);

“Un lampo, un tuono/ all’improvviso come la paura” (Natura)

“Ogni sosta un ristoro/ ogni paura un ricordo” (Ritorno)

“Sono ancora più solo senza la paura/ che arriva sempre col primo rumore” (Geneviève)

L’infanzia è sempre presente, ma come tutti gli elementi molto intimi (ad esempio l’amore per la madre e il ricordo del padre morto prima della sua nascita) si nasconde sotto un velo di riservatezza, di pudore. Le persone amate attraversano la sua strada con passi discreti, i fruscii di abiti femminili sono delicati e appena percettibili.

I sentimenti vi appaiono profondi e complessi, pilastri della vita stessa, e anche se nulla viene concesso  all’autocompiacimento, l’ala della malinconia e del rimpianto si posa su tutto l’esistente.

La vigna che ha già vendemmiato, il campo che ha già mietuto, gli alberi che il freddo ha privato di foglie e frutti sono altrettanti momenti della vita da accogliere con rassegnazione e tenerezza.

Ma il mondo del poeta non è fatto solo di nido familiare, di affetti e di legame con la terra: è anche senso della dignità di tutte le creature, dolore cocente per l’ingiustizia sociale, rifiuto della rassegnazione; di consapevolezza e pregnanza esistenziale : di umanesimo, in una parola.

Si tratta di un uomo dalla vitalità straordinaria, inquieta, dalla vita fatta anche di viaggi, di lavoro intenso, di incontri, di lotta politica, di relazioni umane, di passioni: un costante contrappunto all’amore per la Natura e per il suo paese;  questo rende  il suo sguardo fermo e disincantato, non privo di ironia,  com’è di chi  ha imparato a conoscere gli esseri umani e ha dovuto spesso disilludersi.

Gli fa orrore l’ingordigia che acceca gli uomini e li rende nemici della Natura, che li porta a strozzare il corso dei fiumi, a devastare la buona terra, a uccidere selvaggiamente l’armonia che pure è stata creata per loro, per noi tutti.

Ultimo elemento: il ritmo del verso, naturale, senza forzature, che s’impunta, risale in volo, scorre come un rivolo, si sfrangia come l’odoroso fumo del camino, sussurra, saltella come nel gioco infantile della “campana”:  “Giunco. Passione. Olivo. Perdono. Pampino. Girasole.”

E CANTA: : “Capelli neri. Occhi scuri / Come la notte che torna vicina / Braccia rotonde come fusi. Mani di Regina”.
Silvana Licursi

 

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